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Commemorare i nostri cari attraverso le ricette di famiglia.

Commemorare i nostri cari attraverso le ricette di famiglia.

a close up of polpette on a stove

Squisito tributo alle nonne Cecilia e Mariuccia.

Polpette & Caponata: la perfetta accoppiata (accord parfait)

Non potendo prescindere dall’italiana che è in me, sono consapevole di avere un debole per alcuni piatti legati alla tradizione gastronomica del belpaese che sprigionano deliziose e irresistibili Italian vibes da tutti i pori, o ad ogni morso, per restare in tema.

Le polpette, ad esempio, sono l’apoteosi del comfort food, di quello che sembra volerti dire: vieni qua, che ti voglio abbracciare. La parola stessa, polpetta, suona rotonda, morbida, esattamente come la loro forma.

Siano esse croccanti all’esterno e dal soffice cuore interno, piuttosto che festaiole e danzanti nel profondo rosso di una avvolgente salsa di pomodoro, il risultato è sempre lo stesso: gioia e poesia.

Le polpette piacciono perchè sono rassicuranti. Come le nonne.

E qui mi permetto di parlare delle mie di nonne, Cecilia e Mariuccia. A cui in questo primo novembre, vicini al giorno dedicato ai nostri cari che non sono più con noi,  decido di scrivere un piccolo ma sentito tributo che spero le raggiunga in qualunque multiverso stiano ora abitando.

E soprattutto cucinando.

Perchè di una cosa sono sicura:  là dove si trovano deve per forza esserci una luminosa cucina e una dispensa grande in abbondanza, altrimenti loro non avrebbero mai accettato di trasferirvisi. Patti chiari e amicizia lunga.

Cecilia e Mariuccia: di cuore e di cucina

Cecilia e Mariuccia erano due donne del sud.

La prima nata a Napoli, la seconda a Catania. Avete capito bene, temperamento a volontà, determinazione a farcela tesa all’inverosimile e quel magma di cose buone sempre lì a sobbollire tanto nel loro cuore, quanto nella loro cucina.

Accomunate dall’aver entrambe partorito ben 9 figli,  e dall’aver lasciato la terra d’origine per il freddo nord, Cecilia e Mariuccia raggiungono Torino intorno alla prima metà degli anni Settanta, tra nostalgie e incertezze.

A quale semplice ma potente antidoto contro la tristezza si rifacevano queste due giovani donne tutte cuore e amore? Ma naturalmente alla cucina!

A quello spazio creativo sensibile, profumato di memorie, in cui davano sfoggio di grande maestria, adoperandosi con dovizia nella preparazione di svariati, e sempre deliziosi, pasti al giorno.

Già perchè quando ci sono 9 bambini per casa, che poi diventano adolescenti ed infine adulti, nelle case italiane di un tempo la cucina apriva i battenti alle 6 del mattino e di fatto non chiudeva prima delle 10 di sera. Era tutto un non stop di colazioni, pranzi, merende, cene e perfino spuntini del dopo cena, talvolta.

Che il solo pensare a 11 persone a tavola per circa 4 volte al giorno mi fa venire un misto tra stanchezza ed euforia.

Stanchezza mi sembra chiaro perchè, euforia, bè perchè quelle erano davvero tavole in festa ogni giorno!

Ma loro due no, di stanchezza non parlavano mai. Nè tanto meno ne davano cenno. E se qualcuno arrivava a casa un pò giù di tono, con il broncio o arrabbiato, la risolvevano sempre  alla loro maniera: “Siediti che adesso ti preparo qualcosa di buono”.

E così come per incanto, il broncio si ammorbidiva, lo sguardo illuminava e alla fine il problema scompariva…

Ditemi un pò voi: se non erano maghe, allora cosa?

Le iconiche polpette alla nonna Cecilia

a close up of meatballs on a plate

Le polpette di zia Carla, che porta avanti la tradizione di famiglia.

Ma ritorniamo alle per sempre amiche polpette. Non polpette qualsiasi, eh, quelle mitiche di nonna Cecilia!

Mentirei se dicessi che sono l’unico piatto che mi viene in mente quando penso alla mia nonna paterna, di cui fieramente indosso il nome.

Tuttavia credo rappresentino quello più significativo,  del quale ho più ricordi. Il profumo delle polpette fritte di nonna Cecilia è per sempre. Ma che ne sanno i diamanti!

Il giorno dedicato alle polpette era RIGOROSAMENTE la domenica. E proprio questa ritualità faceva di loro le star del menu e dell’intera settimana.

E la domenica era anche il giorno che noi nipoti attendevamo con ansia, perchè ci si riuniva tutti ed allora si contavano tre tavole e circa trenta persone. Si conversava, si mangiava, si giocava… si rimangiava! Che festa!

I piccoli erano sempre seduti al tavolino da campeggio. (Ma quanto mi piaceva e quanto mi manca quel tavolino?! ).

Ricordo che ai pranzi della domenica ho cominciato ad apprendere le gerarchie interne alla famiglia, alcuni regole morali ed anche  importanti lezioni di vita, osservando curiosa una serie di dinamiche che mi parevano interessanti già da bambina (l’inconsapevole sociologa che era in me cominciava a farsi strada).

Per esempio il tavolo dei piccoli era quello dei privilegiati perchè serviti per primi (capite che con 30 persone a tavola rappresentava un certo privilegio 🙂

Ma era anche quello di coloro che non potevano in alcun modo intervenire alle conversazioni adulte, e non potevano giocare a carte. Quando il nonno decideva che era giunto il tempo, allora c’era il battesimo al tavolo dei grandi.

Allora lì avveniva il rituale di passaggio: dall’infanzia al mondo degli adulti, con tutti i pro e i contro del caso.

Ad ogni modo, tornando alla domenica, giorno atteso con ansia, il rituale iniziava così: prima si chiedeva a nonna di darci pane e sugo. (Nutrizionisti & co, questa è roba forte per voi. Vi suggerisco di saltare a qualche riga più in giù).

Io chiedevo un piatto fondo e del pane rustico che avrei fatto amabilmente nuotare in quelle volluttuose acque rosse. Mamma mia, Che bontà!

Ad onor del vero, non solo i più piccoli ma anche gli adulti si riunivano a cascata in cucina, monitorando costantemente la situazione fornelli.

Quello che ricordo con il sorriso è un movimento continuo intorno a nonna e a quello che bolliva in pentola. O friggeva in padella.

C’era chi rubava le polpette appena fritte (ma tanto nulla sfuggiva allo sguardo vigile di Cecilia) chi tagliava fette di pane e salame e le distribuiva qua e là, e chi era lì che si dedicava al suo piattino di pane e sugo, come me.

In quelle danze pantagrueliche, l’ordinario diventava straordinario.

Perfino le frasi che puntualmente nonna pronunciava sempre uguali facevano parte di un copione spontaneo che tutti noi, ciascuno col suo ruolo, puntualmente portava in scena. O a tavola, che poi la messa in scena avveniva tutta là.

Quando chiedevamo pane e sugo, ad esempio, nonna avrebbe sempre accettato, ma con riserva: “… voi dovete promettere che mangerete tutto a pranzo, se no nonna non ve lo da più!”.

E noi buoni che promettevamo, e devo ammettere mantenevamo anche (sia mai!).

“Ma dai nonna, un pò di più!”, e lei alla fine annuiva e abbondava.

Fino a quando arrivava la frase che tutti veramente aspettavamo:

“A lavarvi le mani, è pronto!”

Il menù della domenica da Cecilia

Crescendo ho imparato che ci sono pochissime certezze nella vita, ma da nonna una cosa era sempre certa: il menù della domenica.

Per decenni, salvo feste comandate, il piatto della domenica era: rigatoni al sugo alla napoletana, con braciole di maiale, rolatine di vitello e altri tagli di carne. A seguire polpette fritte e polpette al sugo. (Leggerino, eh? :D)

Se mi costringeste a scegliere da che parte schierarmi, probabilmente vi direi che sono team polpette fritte. Ma già mi sento in colpa per le altre, non chiedetemelo.

a close up of food, meat and sauce

Il momento del bagno nel sugo delle nostre polpette 🙂

Tutta la tensione emotiva però, e questo è l’aspetto che trovo straordinario e divertente al tempo stesso, era rivolta a quelle perline dorate, o immerse nel sugo, che quando arrivavano a tavola in tutto il loro fascino senza tempo quasi mi commuovevano.

Non ho idea di quante polpette mia nonna preparasse la domenica, a dire la verità non mi è mai venuto in mente di chiederglielo.

Mi bastava vedere quella montagna di bontà rotonde svettare da svariate pirofile che mano mano  raggiungevano le tavole e ammirare nonna tutta fiera che impiattava, per capire che lei, in quelle polpette, ci aveva impastato tutto l’amore per la sua famiglia. Da sempre e per sempre.

Grazie nonna, io quella scena non la scordo mai, così come la tua devozione per tutti noi.

La caponata di nonna Mariuccia

a plate of Sicilian Caponata

Caponata, caponata, caponata: buona al cubo!

E finalmente parliamo di lei, la vivace, coloratissima e buona al cubo: la caponata di nonna Mariuccia!

All’anagrafe Maria, ma da tutti chiamata col diminutivo/vezzeggiativo di Mariuccia, tipico in Sicilia. Chissà, complice forse questo nome dalla eco fanciullesca, la mia nonna materna è sempre rimasta un pò bambina (e menomale, aveva già capito che il nostro bambino interiore va nutrito anche da adulti).

Possedeva tutto il fascino dell’ingenuità, rideva spesso e di gusto malgrado le molte difficoltà che la vita non le risparmiava, e nella cucina aveva trovato il suo rifugio sicuro e confortevole. Il suo happy place.

Mariuccia è stata un’altra maestra d’arte culinaria casalinga (e non solo) e, sebbene anche in questo caso potrei menzionare più di un piatto cult per renderle omaggio, la caponata, che da nonna Mariuccia è sempre stata caponatina (not temete, tra poco vi spiegherò tutto) resta quello che la descrive meglio ed era immancabile nel suo frigo. Inoltre ne sono ghiotta: è assolutamente squisita!

Ma dedichiamo un piccolo spazio a questo piatto che, a differenza delle polpette, conosciute in maniera universale quasi in tutto il mondo, è più di nicchia, se vogliamo. Così anche chi non lo conosce, se ne potrà innamorare.

Le origini della caponata

Non è un mistero che l’Italia sia uno squisito mosaico di cucine e tradizioni culinarie differenti che la rendono terra unica,  affascinante e amata in tutto il mondo.

Da nord a sud si susseguono innumerevoli ricette tipiche, spesso nate a seguito di qualche significativo evento storico culturale, o create dall’ingegno delle classi meno abbienti per sopperire alla mancanza di cibo. Eh sì, se si voleva provare piacere a tavola, toccava essere creativi.

Così accadeva che ciascuna regione possedesse un ingrediente madre, intorno al quale nel tempo è andata a costrursi la struttura della cucina di quel territorio.

L’ingrediente madre in Sicilia era, ed è tutt’ora, Sua Maestà La Melanzana.

a close up of fried eggplants

Golosità salate: cubetti di melanzana impanati e fritti

Per il suo possedere una naturale consistenza meaty, veniva preparata in sostituzione alla carne o al pesce, che il popolo non poteva permettersi.

Ed ecco che la melanzana ha cominciato così a sfoggiare mille mila vesti: grigliata, impanata, ripiena, gratinata, alla parmigiana… e poi lei: la caponata di melanzane.

Diffusa in tutto il Mediterraneo a partire dal XVIII secolo, prende probabilmente il suo nome da un pesce pregiato delle acque siracusane: il capone, che era solito essere servito con salsa agrodolce d’accompagnamento alle tavole dell’aristocrazia. Tuttavia esistono anche altre ipotesi che non vaglieremo in questa sede.

Sebbene si contino svariate versioni regionali dello stesso piatto a seconda della città d’appartenenza, mia nonna, da catanese, si atteneva a quella, sebbene nel tempo avesse rivisitato la ricetta originale,

A Catania la caponata di nome fa caponatina, perchè a partire dal 1916 viene prodotta nei classici barattolini di vetro da conserva, da qui il suo diminutivo – direi peraltro molto cute.

La versione più recente, e rivisitata, di nonna Mariuccia, che tutti i miei sensi ancora ricordano, è quella che aveva per ingredienti:

-Melanzane

-Peperoni rossi

-Patate

-Pomodorini

-Sedano

-Olive nere siciliane

-Capperi

Gli ingredienti – capperi a parte- venivano tagliati a pezzetti e poi fritti in padella con dell’aglio, sfumati in ultimo con l’immancabile agrodolce (una tazzina di aceto, zucchero, acqua e un poco di passata di pomodoro).

Il giorno dopo, come la lasagna e il tiramisù, se possibile era ancora più buona.

Se mi concentro riesco quasi a riprodurre il profumo di quel barattolino ripieno di delizia. E in un attimo è come portare lo spirito di nonna Mariuccia qui vicino a me. Quello spirito vivace, pieno di colori. Ritratto di bontà. Proprio come la caponata.

I sabato sera bravi a casa di nonna Mariuccia

Ho frequentato il ginnasio al Liceo Classico Massimo D’Azeglio, o D’Aze, come lo chiamano i torinesi.

Non possiedo ricordi particolarmente piacevoli di quel periodo. Al di là degli stimoli intellettuali, la parte emotiva era completamente assente, tanto per i professori, quanto per gli studenti. A volte mi pareva di stare in mezzo a tante AI, fatto salvo per qualche rara eccezione. Tipo la mia geniale amica Elisa, con cui ci divertivamo a creare rebus e fumetti con le caricature dei proff.

Ma cosa c’entra tutto questo con i sabato sera bravi a casa di nonna Mariuccia? Vi starete forse domandando.

C’entra eccome!

Sì perchè il lunedì era tosto. Ma intorno a metà settimana cominciavo a vedere la luce: “dai Ceci che è mercoledì, sabato sera vai da nonna Mariuccia, ti fa la pizza, gli arancini, la caponatina, tutte le cose che ti piacciono. Poi domenica da nonna Cecilia per il secondo round, giochi a carte con nonno, chiaccheri con zia Adri che ti presta un po’ di libri carini e magari anche qualche vestito… Ce la puoi fare”.

Capite la forza? La forza trainante -ed emotivamente impattante -di quei momenti a tavola, in famiglia, con nonna Mariuccia che sfornava pizze ripiene che neanche in pizzeria, arancini mozzafiato, una miriade di altre cose buone, buonissime e poi ovvio, lei, la colorata sweet&sour: la caponata.

Nonna, anche se quasi non vedeva più per via del diabete, sapeva sempre, e dico sempre, quando ero triste, annoiata, quando c’era qualcosa che mi preoccupava. Perchè non ha mai smesso di vedere con gli occhi del cuore…

Ora pensate alla più classica delle scene dei teen drama anni Novanta. Alla mamma, la nonna o l’amica di turno che estrae dal freezer una mega confezione di icecream e tra una cucchiaiata e l’altra, addolcisce il problema e trova con te la soluzione.

Ecco, trasportate quella scena in una casa siciliana. Nel frigorifero della casa catanese di mia nonna Mariuccia non mancava mai la caponatina in barattolo di vetro, che preparava almeno due volte a settimana.

Caponata siciliana

Caponata siciliana alla Chef Abram

Ed era quello il nostro gelato. Il più buono che abbia mai mangiato finora…

La caponatina di Mariuccia era insieme una panacea per tutti i mali e al tempo stesso una ode al buono della vita, che, anche quando sour, resta sempre sweet.

La memoria dei miei sabato sera bravi da nonna Mariuccia resta indelebile, come il suo ricordo.

Mantenere in vita la memoria dei nostri cari attraverso le loro ricette

Le mie nonne erano solite cucinare a sentimento e nessuna preparazione è mai stata messa per iscritto, dunque non esistono ricettari fisici da tramandare.

Tuttavia, l’eredità immateriale che che ci hanno lasciato è tangibilissima.

Amo, stimo e guardo con profonda ammirazione a Cecilia e Mariuccia, che rappresentano per me due modelli di rara virtù.

La vita ha picchiato davvero duro con loro, ma loro in tutta risposta non si sono mai lasciate nè indurire, nè piegare dalla vita stessa! Per questo sono state due eroine che, scegliendo la via del cuore, hanno sempre e solo cucinato amore.

Io quelle storie di amore, passione e famiglia , oltre a custodirle caramente dentro di me, cerco di portarle a tavola nel mio lavoro.

Occupandomi di turismo gastronomico  esperienziale, ho una porta d’accesso privilegiata al mondo delle emozioni, perchè di fatto, quando si dialoga di cibo e col cibo, e infine lo si degusta, in fondo è tutta questione di edible emotions in action, emozioni edibili in azione, come dico sempre a chi partecipa ai nostri food tours.

Ebbene sono felice e fiera di poter dire che le mie nonne sono sempre con me durante i miei itinerari gastronomici! Non manco di menzionarle ai miei foodies, di condividere i miei piatti del cuore collegati alle più belle memorie con loro e di raccontare spaccati di vita che hanno accomunato molte famiglie del sud traferitesi nel triangolo industriale fra gli anni Sessanta e Settanta.

Si apre così una conversazione arricchente, fatta si scambi significativi, talvolta risate, talvolta qualche lacrima di commozione …

E ispirazione, anche!

Quando commemoriamo qualcuno, in qualunque modo si scelga di farlo, lo stiamo onorando e mantenendo continuamente in vita.

Lo stiamo rendendo eterno. Stiamo trasportando l’immateriale nel mondo sensibile e questo attraverso il cibo diventa più semplice, gioioso, divertente.

Spero le mie nonne siano fiere della donna che sono diventata, quanto io sono fiera di essere stata la loro nipote.

Ieri, oggi e 5Ever,

Vostra Cecilia

(che per la nonna siciliana diventava Cicilia -con accento annesso- e per quella napoletana era, tuttavia non sempre, Cecialì :))